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Ristrutturazione politica divisa per cinque


Arrigo Cervetto (luglio 1991)
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N° 251


Un bilancio inusuale della ristrutturazione sociale degli anni ottanta arriva da oltre Atlantico.
Ne è autore Robert Reich, economista democratico liberal fautore, nell'America di Carter, di una politica industriale semiprotezionista e sostenitore del salvataggio della Chrysler.

Ora Reich ritiene quella linea superata.

Nell'ultimo suo libro, "Il lavoro delle Nazioni", sostiene che la politica industriale aveva un senso quando esisteva una società nazionale definita, al cui interno si potevano distribuire le risorse, prendendo da un settore, da un gruppo industriale o da una generazione per spostarle ad altri.

Ma l'imporsi dei mercati globali per il capitale, la forza lavoro, il management e la tecnologia vanifica la politica industriale.

Ogni sforzo per potenziare una data industria o società produce vantaggi per tutti e non solo per i diretti produttori. Se il governo americano sovvenzionasse le industrie della Silicon Valley, automaticamente creerebbe posti di lavoro e profitti in Giappone, in India e a Singapore, dove quelle imprese hanno distribuito le loro attività.

La nazionalità, sostiene Reich, diventa irrilevante ed ha poco senso parlare di nazioni ricche o povere.

"Oggi siamo ricchi o poveri perchè il lavoro che svolgiamo come individui ha un prezzo alto o basso sul mercato globale ". Gli Stati Uniti, ritenuti il paese dell'arricchimento generale, non lo sono più. Gli americani navigano divisi su tre barche distinte, dice Reich, e di esse solo una va a gonfie vele.

E la barca simbolica dei professionisti, dei manager, dei mestieri creativi, di coloro che mediano e risolvono i problemi. Costoro rappresentano un quinto della popolazione statunitense e i loro guadagni, stimolati dalle comunicazioni digitali, sarebbero saliti alle stelle.

Sulla seconda barca stanno i "produttori di routine", operai di fabbrica, manager medio-bassi, complessivamente un quarto della forza lavoro americana. I loro stipendi sono in costante calo e i loro posti di lavoro continuamente minacciati.

Infine, ammassato nella terza barca, sta il 55% della forza lavoro, impiegato nelle attività di servizio, con stipendi declinanti.

L'analisi di Reich rappresenta un modello sociale (la società di un quinto) contrapposto al modello della "società dei due terzi" che ha dominato la sociologia degli anni ottanta.

E una tesi in gran parte politica, rivolta contro il decennio conservatore americano di Reagan e Bush e destinata alla battaglia elettorale statunitense già iniziata.

E indicativo che questa polemica sul carattere del mutamento sociale nelle metropoli sfugga all'attenzione degli analisti italiani. Qui, spesso, il "nuovo" non è che una rimasticatura del vecchio.

Antonio Martel li, vicepresidente della Banca Popolare di Milano e fratello del vicepresidente del Consiglio, sulla rivista "Uomini e business" lamenta che sia passato inosservato il cinquantenario del libro di James Burnham "The Managerial Revolution". Burnham, dice Martelli, commise diversi errori di giudizio: vide come sistemi convergenti i modelli dell'URSS stalinista, della Germania nazista e dell'America roo sevèltiana, che consideròpartoriti dalla "rivoluzione dei manager"; sulla scia di Schumpeter, ritenne inevitabile la fine del capitalismo; considerò prossimo l'avvento di una società dei tecnici che avrebbero sottratto il potere alla burocrazia politica.

Secondo il commentatore italiano, malgrado questi abbagli, Burnham non sbagliò del tutto. Infatti, insieme al fallimento del socialismo reale, bisogna constatare la sconfitta del capitalismo selvaggio, produttore di ricchezza ma non di coesione sociale. Il saggista americano, in fondo, ha avuto ragione nel vedere la fine dell'egemonia dei detentori del capitale e l'avvento dei "detentori della conoscenza necessaria al controllo efficiente dei processi produttivi dell'economia di mercato ".

La commemorazione di Burnham è qui usata come pretesto per rinverdire l'illusione riformista di un "capitalismo organizzato" ma rispettoso del mercato.

Se le tesi di Reich partono da un'assolutizzazione della tendenza al mercato globale, altri economisti diagnosticano una tendenza dlversa.

Nel "Bullettin" del FMI dell'8 aprile, l'ex consigliere economico del presidente Reagan, M. Murray L. Weidenbaum, sostiene che la CEE ha già alzato le sue barriere commerciali e ne alzerà ancora.

Nel 1960, il 60% del commercio estero dei paesi CEE era destinato fuori dalla Comunità. Nel 1990, la quota del commercio estero CEE è scesa al 40% e in questo l'economista di Saint Louis vede una tendenza protezionista, benchè nel frattempo il numero dei membri comunitari sia raddoppiato. Le restrizioni europee alle merci giapponesi, continua Weidenbaum, finiscono con il colpire anche i prodotti statunitensi, perchè se i paesi del Pacifico incontrano ostacoli nel mercato europeo, dirotteranno le loro vendite sul mercato emricano. Però la CEE abbinerà al suo irrigidimento protezionista una grande flessibilitià. allargandosi a 20 membri con l'ingresso di Islanda, Norvegia, Svezia, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Finlandia. In questo dibattito sulla tendenza ai grandi blocchi economici interviene John Zysman, della Università di Berkeley, che prevede la costituzione di tre giganti commerciali: L'Europa con il 25% del prodotto lordo mondiale, il Nordamerica (USA, Canada, Messico) con un altro 25%, e un blocco asitico gravitante sul Giappone con il 15%. Secondo Zysman, il GATT non avrà piu' ragione di esistere, dal momento che i 2/3 del prodotto mondiale saranno trattati bilateralmente. E una delle possibili conseguenze della tendenza ai grandi blocchi. Altre se ne scorgono. Negli USA emergono posizioni che argomentano il rifiuto a finanziare Gorbaciov con la priorità del finanziamento al Messico e all'America Latina. Alcuni sostengono che la cooptazione del Messico nell'area economica nordamericana sarebbe una vittoria più importante di quella sull'Iraq.

In Europa, la spinta al grande mercato continentale è molto marcata nel nuovo governo francese di Edith Cresson. L'Italia potrebbe trarne beneficio aumentando il proprio peso negoziale e svolgendo un gioco di scorrene di frontiera.

All'interno della teoria dei blocchi regionali si col loca Giovanni Agnelli che ha esposto il suo pensiero in una conferenza ad Oxford.

Il presidente del gruppo IFI-FIAT sostiene che "di fronte a un mondo che si muove verso una dimensione globale articolata in grandi regioni continentali, l'Europa non può che essere una ".

Ma questa "esigenza di sopravvivenza" è ostacolata dal carattere trifronte dell'Europa, calamitata da tre diverse vocazioni regionali.

C'è un'Europa mediterranea (Francia, Spagna, Italia) cohe si confronta in prima linea con le migrazioni del Sud; c'è un'Europa anglosassone legata per storia e cultura agli Stati Uniti; c'è infine un'Europa germanica, protesa verso Est.

L'unità europea, sottolinea Agnelli, è la condizione per adempiere queste tre <priorità diverse di ruolo e di impegno politico ".

Tre anni fa si sono fronteggiate due tesi sulla tendenza verso i blocchi regionali. Lester Thurow intravedeva la formazione di "tre fortezze commerciali" incardinate rispettivamente sul marco/ecu, sullo yen e sul dollaro.

Paul Kennedy indicava il modello dei "cinque chiostri" di potere economico e militare (USA, URSS, Cina, Europa, Giappone).

Da allora un "chiostro", quello sovietico è stato semidemolito a vantaggio della fortezza" del marco.

La vicenda dei nuovi blocchi commerciali e politici , dopo il tramonto definitivo di Yalta, è ancora agli inizi.

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