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La distensione armata dei nuovi rapporti di potenze


Arrigo Cervetto (giugno 1978)
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N° 94


Secondo un rapporto Brookings gli Stati Uniti avevano nel 1950 il 34,2% del prodotto lordo mondiale e nel 1974 il 25,1%, l'URSS 1'11,4% e il 12,8%, il Giappone il 2,8% e il 7,7%, la Germania Federale il 5,2% e il 65%, la Francia il 4,8% e il 51%, il Regno Unito il 5,5% e il 3,3%. La svolta fondamentale, da noi analizzata in quel periodo, nei rapporti economici tra le grandi potenze avvenne negli anni '60. Essa si può così sintetizzare: gli Stati Uniti calarono, alla fine del decennio, al 26,5%, l'URSS si attestò sul 13,1%, il Giappone ascese rapidamente al 7,3 %, la Germania Federale salì al 6,9%, la Francia stagnò sul 5,0% e il Regno Unito crollò al 3,6%. Quando si farà la storia dei rapporti interimperialisti, gli anni '60 dovranno richiedere la massima attenzione d'analisi perché è in quel periodo che si determinano i fattori della crisi di ristrutturazione e della dinamica degli anni presenti e futuri. L'imperialismo russo non riuscì a beneficiare dei 18 punti mondiali persi da quello statunitense e dei 2 punti persi da quello inglese; quasi 2 ne prese invece quello tedesco e ben 4 e mezzo se li accaparrò quello nipponico. Se la storia fosse andata secondo le teorie di Stalin, e dei suoi numerosi e sprovveduti ammiratori italiani, saremmo davvero a prendere sul serio i discorsi di Tenga e di Carter sulla "minaccia russa" puntata "al cuore" dell'Europa, quasi sul Reno. L'URSS, con i 18 punti americani e i 2 punti inglesi, supererebbe di parecchio, dall'alto dei suoi ipotetici 31 punti, la potenza americana ridotta a 25. Stalin si consolerebbe, nella tomba, sulla validità della sua teoria del mercato mondiale diviso in due, quello capitalista e quello socialista, per la quale il mercato socialista si espandeva a spese di quello capitalista. Nella tomba accanto, Kruscev, più espansivo, esulterebbe nell'avere raggiunto l'obiettivo posto per il 1980 di superare l'America. Invece dei 18 punti persi dall'imperialismo americano e dei 2 persi da quello inglese, oltre a beneficiarne le metropoli sconfitte dalla seconda guerra mondiale, più della metà sono andati ai giovani capitalismi, i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Le cose sono andate diversamente da come prevedeva la semplicistica teoria staliniana e si sono ulteriormente complicate. La tesi sul superimperialismo americano inconsistente quando questo contava per un terzo del mondo lo è ancora di più quando conta per un quarto. Eguale sorte subisce la tesi dei «due superimperialismi»: assieme, USA e URSS, contavano per il 45,6% nel 1950, ancora per il 45,4% nel 1960, ma solo per il 39,6% nel 1970 e per il 37,9% nel 1974. Assieme contano oggi poco più di quanto contavano gli Stati Uniti da soli nel 19950. Criticammo, nel 1957, la teoria dei «due superimperialismi»; a maggiore ragione la critichiamo oggi. Se si vuole capire qualcosa nelle relazioni internazionali bisogna aver ben chiaro in testa che nel mondo non ci sono solo le superpotenze. Ci sono altre grandi e medie potenze. Nessun conto torna nella politica internazionale se nella somma non vi si aggiunge almeno il Giappone e la Germania, che, assieme con il 14,2%, superano in prodotto lordo l'Unione Sovietica. Lo scarto in prodotto industriale è ancor più marcato e, quindi, lo è in potenziale militare. La storia dimostra che l'URSS ha difficoltà a reggere economicamente un solo fronte e che non si è mai trovata a doverne reggere, contemporaneamente, due. Queste cose vanno ricordate quando ritornano a circolare discorsi tipo anni '50 sui rapporti di potenze, come se da allora tali rapporti non fossero mutati. Dal 1974, inoltre, le metropoli sono uscite dalla crisi di ristrutturazione in modo differenziato: quella russa si è ulteriormente indebolita ed ha rallentato il ritmo, quella tedesca e quella giapponese ne sono uscite, nel rapporto relativo con le altre, rafforzate, quella statunitense, anche se nel complesso mondiale ha mantenuto le posizioni, si è rafforzata nei confronti di quella russa ma si è indebolita in rapporto a quella giapponese e a quella tedesca. Se aggiungessimo le altre grandi e medie potenze il quadro diventerebbe ancor più complicato e differenziato, proprio a voler rappresentare esattamente che ogni mossa in politica estera non è fatta contro un solo avversario, ma contro più avversari e coinvolge, di fatto, non uno ma più amici o alleati che, sempre di fatto, sono più avversari degli avversari stessi. La partita, sullo scacchiere internazionale non è mai stata giocata muovendo un solo pezzo alla volta. Oggi questa regola vale più che mai. Washington, in questo ultimo anno, sta conducendo una partita, sostanzialmente di difesa, muovendo una infinità di pezzi sul fronte commerciale, finanziario, monetario, militare. L'avversario non è solo e non è tanto Mosca quanto Tokyo e Bonn. Sostanzialmente una serie di colpi, in quelle direzioni, sono andati a vuoto. La manovra monetaria e commerciale della svalutazione reale del dollaro ha dovuto arrestarsi e subire pesanti contromanovre. Le ripercussioni si sono avute anche in Francia, quinta potenza mondiale, dove le frazioni borghesi, più legate ai settori trainanti del Sud Est e dell'Ovest, hanno rafforzato la linea europeista giscardiana a detrimento della linea chirachiana, più legata ai settori protezionistici parigini del capitalismo di Stato, e della linea mitterandiana, ancora attardata sulle nazionalizzazioni chimiche, siderurgiche, elettroniche. Ma le ripercussioni maggiori si dovrebbero avere al vertice di luglio dove la linea americana, già di fatto ridimensionata con l'arretramento dalle « locomotive » al "convoglio", con ogni probabilità subirà un ulteriore restringimento. L'attacco giapponese e tedesco, mai riportato dalla grande stampa italiana che allinea gli interessi prevalenti nella metropoli a quelli americani, (valga per tutti l'aggancio della lira al dollaro e non al marco), al deficit commerciale americano è pesante e giunge ormai al limite di rottura. Il deficit commerciale americano, causato dall'incremento dell'import del greggio, è sostanzialmente equilibrato dalla forte esportazione internazionale di capitali, specie tedeschi. La politica energetica delle compagnie petrolifere statunitensi, che si riflette in una forte corrente politica in seno all'Amministrazione Carter dopo aver influenzato ampiamente la linea Kissinger, intralcia la linea antinflazionistica tedesca perché incrementa la inflazione mondiale ed arresta la caduta dei prezzi del petrolio, dalla quale trarrebbero beneficio l'economia europea, quella giapponese e quella di molti giovani capitalismi. Essa favorisce, inoltre, l'aumento dei prezzi del petrolio russo sull'area Comecon. La questione, indubbiamente, non sarà risolta. Certamente continuerà, assieme a molte altre, ad alimentare tensioni. Il mercato russo ed europeo orientale ha rappresentato negli anni scorsi uno sbocco per l'economia occidentale. Su questa base oggettivasi stabilì una distensione dei rapporti con l'URSS e venne varata, in primo luogo, dalla Germania, la Ostpolitik. Il forte indebitamento estero reso pesante dalla lenta recettività occidentale di manufatti e di materie prime russe ed europee orientali, ed il basso ritmo di sviluppo del mercato dell'area slava stanno restringendo il suo ruolo di sbocco per un apparato occidentale che si è ristrutturato e rafforzato. La concorrenza giapponese ed occidentale aumenta su questo sbocco. La Germania può tendere a rapporti preferenziali, o comunque, a minacciarli come arma di pressione sui suoi concorrenti. Nel complesso, però, il Giappone e le metropoli occidentali, che si affrontano praticamente in tutte le aree in sviluppo, cercano di contrarrestare la tendenza al rallentamento produttivo con l'industria bellica. Perciò aumentano l'esportazione di armi in cento focolai di guerra, varano piani di riarmo come quello della NATO, includono la Cina in questa tendenza. Le guerre d'Africa, con schieramenti mobili, eterogenei, rapidamente mutevoli sono il prodotto della nuova fase dei rapporti interimperialistici. L'URSS cerca di inserirsi nelle contraddizioni esistenti non solo tra le borghesie nazionali ma pure e principalmente tra le varie metropoli occidentali, dato che l'Africa è un terreno di caccia degli europei dove cercano di entrare americani e giapponesi. Gli imperialisti sovietici, contenuti in Asia dove il ritmo giapponese supera ampiamente quello russo, ridimensionati in Medio Oriente, dove non hanno mezzi sufficienti per tenere testa all'alto livello finanziario della politica americana di bilancia militare. Limitati in Europa, non hanno altro consistente campo d'azione che l'Africa, dove per ora l'intervento militare è a costi inferiori a quelli di altre aree. Difficilmente l'URSS rinuncerà a questa testa di ponte che può aprire prospettive per quella somma di contraddizioni esplosive costituita dal Golfo Persico. La "distensione armata" è ormai una realtà universale del capitalismo in sviluppo, una realtà del gioco di potenze dell'imperialismo che ridicolizza l'ideologia delle relazioni internazionali.

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